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Vito Mauro
 
Ricordi di una civiltà contadina
 
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C’era una volta…il contadino.. Sin da quando l’uomo primitivo non visse da nomade, ma sentì l’esigenza di fermarsi in un posto e li trascorrere la sua vita, la caccia non fu più sufficiente ad assicurargli il cibo. Nacque cosi la necessità di coltivare la terra e trarre da essa il cibo. A questo uomo si diede il nome di “contadino” cioè che coltiva la terra. Per questo si può affermare che il mestiere di contadino è il più antico del mondo ma fondamentale in ogni epoca fino ai nostri giorni, perché ha assicurato e assicura la sopravvivenza dell’umanità e il progresso. Nel corso della storia questa figura è stata immortalata come campagnolo persona goffa e rozza in contrapposizione a cittadino, uomo di città gentile e cortese.

Come tutti i mestieri del mondo, nel corso della storia, il lavoro del contadino ha subito delle trasformazioni per cui impropriamente possiamo dire c’era una volta…il “contadino” e non è altrettanto sbagliato se oggi possiamo parlare di Ricordi di Civiltà Contadina.

Viveva quasi sempre in campagna e non conosceva né feste né riposo. Iniziava a lavorare la mattina molto presto e smetteva la sera molto tardi con il buio. Conduceva una vita fatta di lavoro duro e continuo che svolgeva con una alimentazione povera tanto che la sua vita media era di cinquanta anni.

La maggior parte dei contadini lavorava la terra non di sua proprietà. Erano affittuari o coloni e pagavano l’affitto con la metà del raccolto. A volte tre parti il proprietario e una l’affittuario. Se il raccolto non era buono e l’affittuario non riusciva a pagare l’affitto il padrone dell’appezzamento del terreno gli faceva sequestrare quelle misere cose che possedeva lasciandolo nella più assoluta povertà. I contadini erano nella quasi totalità analfabeti, tranne poche eccezioni. Vivevano sempre a contatto con la terra e le bestie, conoscevano poco o niente dello sviluppo e del progresso civile che avveniva nella società, ma conoscevano benissimo i cicli di produzione della terra. Oggi questo tipo di contadino non esiste più, almeno dalle nostre parti, ma dai racconti degli anziani, dalla osservazione degli attrezzi di lavoro da loro adoperati e oggi qualcuno conservato nei musei, dalle vecchie fotografie si ha testimonianza di quanto difficile sia stata la loro esistenza. Vecchie immagini di gente al lavoro da cui traspare la sofferenza, il dolore, la fatica, il sudore. Oggi tanti si dedicano a fare raccolte di vecchie fotografie e tra questi è da ringraziare Eduardo Paladino, grande conoscitore ed esperto di antiche tradizioni locali cui va il merito particolare di frequenti mostre di antiche fotografie che fanno rivivere alla gente un tempo che fu.

 

Il lavoro dei contadini non si esauriva mai, l’anno agrario iniziava con:

 

LA SEMINA

Prima della semina, il contadino dissodava il terreno, toglieva le pietre più grosse, bruciava i cespugli, sradicava le erbacce, quindi arava il terreno. Si metteva il giogo ai muli cui era attaccato l’aratro e con esso tagliava il terreno sia dall’alto verso il basso sia orizzontalmente con il vomere, mentre l’orecchio rivoltava la fetta di terra. Fatto ciò, concimava il terreno e infine spargeva a mano i chicchi di grano sul terreno lavorato. A primavera levava a mano o con zappe le erbacce infestanti e preparava i legacci di lijama ri ddisa che dovevano servire durante la mietitura per fasciare le spighe e formare i covoni. Mieteva l’erba per essiccarla e fare il fieno e con esso riempiva i fienili per poi poter dare da mangiare agli animali, quando il cibo scarseggiava.

 

LA MIETITURA

Si mieteva verso giugno, periodo in cui le giornate erano molte lunghe e gli insetti incominciavano ad essere fastidiosi. Tra questi i parpagghiuna, piccoli moscerini ma molto fastidiosi, che si annidavano in mezzo al grano e disturbati dal rumore del colpo di falce, assalivano i contadini nelle parti scoperte del corpo strasudato provocandogli fastidio e l’interruzione del lavoro; per non parlare delle vespe le cui punture gli provocavano gonfiori e forti dolori. Essi si alzavano la mattina prestissimo per fare il lavoro prima che il sole scaldava la giornata e dopo essersi preparati indossando al braccio sinistro un bracciale di cuoio mentre nelle dita mignolo, anulare e medio si mettevano ditali di canna per evitare di ferirsi con colpi di falce, iniziavano a mietere. All’anto c’era sempre la quartara piena d’acqua e il fiasco col vino per castigare l’arsura provocata sia dall’afa sia dalla polvere dello stelo del grano tagliato sia dall’abbondante sudorazione. Al primo colpo di falce invocavano la benedizione di Dio e durante il lavoro ringraziavano la Madonna e i Santi perché il lavoro e il raccolto andassero per il verso giusto. Con una mano tenevano fermo un gruppo di spighe e nell’altra la falce con cui le tagliavano poco più su della radice. Ogni due manate formavano un jemmitu. Ogni dieci “jemmiti” venivano legati con la “lijama di disa” e formavano un covone, ogni venti covoni formavano un mazzo. Alla fine i gregni  venivano riuniti a gruppi di sei, ogni gruppo formava una straulata, e lasciati al sole ad essiccare pronti ad essere, strauliati portati all’aia e pisati, trebbiati. All’ultimo colpo di falce i contadini, si drizzavano, alzavano la falce e l’ultima manata di spighe verso il cielo e gridavano: Finiu stu turmentu sia ludatu lu Sacramentu.

 

LA TREBBIATURA

Una volta essiccati, i contadini riempivano l’aia di gregni, li scioglievano per farli scaldare bene dal sole e quando ritenevano che le spighe erano abbastanza calde facevano entrare i muli a pariglia, retina, nell’aia che girando a mo di giostra consentivano la fuoriuscita dei chicchi di grano dalle spighe e riducevano gli steli in paglia. Mentre i muli, guidati da un contadino posto al centro dell’aia giravano e pestavano i gregni, altre persone muniti di trarenta, tridente, impedivano che le spighe andassero fuori dell’aia. Non mancavano invocazioni a squarcia gola al “Padre delle Grazie, alla Madonna, al Sacramento e a tutti i Santi” perché il lavoro andasse bene compreso il raccolto. Invocazioni e lodi anche per i muli molto stanchi per la fatica. “Acchiana e scinni bbellu baiu comu lu ventu, rringrazziamu lu santissimu sacramentu”.

Fatta la paglia aspettavano il vento per iniziare a spagliare. Gli uomini si mettevano un cappuccio in testa e con la “trarenta” alzavano all’aria la paglia affidando al vento il compito di separare il grano dalla paglia. Mentre la paglia era portata via dal vento ricadendo un po’ lontano formando il pagliericcio, il grano ricadeva nell’aia evidenziando il colore biondo oro. Con la pala si separava il grano dal bbastardu, pula, e con il crivu, setaccio, si toglieva tutto ciò che il vento e la pala non era riuscito a portare via. Lavoro lungo, faticoso e polveroso che spesso durava giorni e che metteva a dura prova le loro forze e la loro salute. Al calar del sole mangiavano quel che il buon Dio passava e stanchissimi stendevano la bisaccia o dei sacchi sopra il pagliericcio, si coprivano con lo scialle o a ncirata per ripararli dall’umidità e si addormentavano in attesa che all’orizzonte spuntasse a puddara, la stella polare, per trasportare a dosso dei muli il frumento al granaio e i ritura pieni di paglia nella pagghialora. All’alzar del sole l’aia era pronta per continuare la fatica. Subito dopo la seconda guerra mondiale ai muli nell’aia subentrò la trebbia, macchinario mosso dal motore del trattore e capace di separare la paglia dal grano in pochi minuti. Ma la fatica non diminuì perché il caldo, la polvere, il rumore erano infernali e i ritmi di lavoro molto aumentati perché dettati dalla macchina. Aumentarono i rischi di infortunio sul lavoro e tanti ci lasciarono la pelle o rimasero inabili per la vita.

 

LA VENDEMMIA

Finita la trebbiatura i contadini si dedicavano alla raccolta delle mandorle, del sommacco, a liberare il terreno dalle stoppie e si preparavano per la vendemmia.

La raccolta dell’uva era la festa dell’allegria perché coinvolgeva uomini, donne e bambini ma anche amici e parenti. Ognuno di loro munito di coltello e paniere si metteva davanti il filare e raccoglieva l’uva tra risate e canti, barzellette e doppi sensi mentre i carriatura riempivano i tineddi

di uva che a dorso dei muli trasportavano al palmento. Famosa era a manciata ra vinnigna. Le donne stendevano per terra la tovaglia e mettevano su di essa il cibo: pane, formaggio, sarde salate, olive novelle schiacciate, uova bollite, frittate, u bbùmmaru con l’acqua e il fiasco con il vino. Tutti si sedevano per terra attorno alla tovaglia, e dopo aver ringraziato Dio iniziavano a mangiare tra scherzi, battute spiritose. Al palmento l’uva veniva messa in grosse vasche in muratura e impermeabilizzate e quando i carriatura finivano di trasportarla, i pigiatura, anche loro contadini, incominciavano prima a calpestarla con i piedi nudi, per fare uscire il mosto dagli acini e poi continuavano la spremitura adoperando la pressa per fare uscire il rimanente mosto. Alla fine il mosto veniva portato a casa e versato nella botte a cui aggiungevano il mosto cotto e carrube abbrustolite per aromatizzare il futuro vino.

 

LA RACCOLTA DELLE OLIVE

Si finiva di vendemmiare e i contadini si dedicavano alla raccolta delle noci, a potare gli alberi la cui legna era necessaria per cucinare durante l’inverno a riempire le pagliere di arditine e già pensavano alla raccolta delle olive a cui partecipavano uomini, donne e bambini. U cutuliaturi si arrampicava sull’albero e sfilava con le mani le olive o le abbacchiava. A terra gli altri in ginocchio o piegati in due raccoglievano ad una ad una le olive cadute per terra. Finita la raccolta, i

sacchi pieni di olive, a dorso dei muli venivano portati al trappitu, frantoio, gestito da contadini esperti di spremitura di olive. Il lavoro di spremitura iniziava col tritare le olive per ridurle in pasta tramite lo schiacciamento da parte di due grossissime ruote di pietra mosse dai muli. I coffi dentro i quali era stata sistemata la pasta venivano messi nel torchio che era di legno con due madreviti scrufini, che girando su un grosso vituni esercitavano una forte pressione sui “coffi” costringendo il liquido a separarsi dalla pasta. Il liquido che fuoriusciva finiva in un tino di legno per essere decantato. Dopo un po’ l’olio veniva su, mentre l’acqua andava giù consentendo al trappitaru di separare l’olio dall’acqua servendosi di un boccale. Nel trappitu il lavoro era pesantissimo: non c’era orario di lavoro, gli operai si fermavano soltanto quando la stanchezza e il sonno li obbligava a interrompere o quando la fame si faceva sentire. Tuttavia l’interruzione durava poco. La raccolta delle olive avveniva nei mesi ottobre-novembre ed era già tempo di arare e preparare il terreno per la semina per il nuovo anno agrario.

Oggi tutto è cambiato. Nell’arco di tempo di alcuni decenni la nostra economia non è più prevalentemente agricola ma anche industriale, commerciale e turistica. Il modo di coltivare le terre è cambiato. Da un’agricoltura arcaica si è passati a un’agricoltura meccanizzata, da un’agricoltura estensiva verso un’agricoltura intensiva e si va verso un’agricoltura in serra dove pochi metri quadrati, danno quantità di prodotti che prima erano dati da enormi estensioni di terreno. Oggi si va verso la produzione di prodotti di alta qualità e quantità in piccole estensioni di terreno.

Si può dire con quasi assoluta certezza “C’era una volta il contadino?”.

Il contadino sprovveduto, analfabeta, rozzo, dalle mani callose, che viveva sempre in campagna, aggobbito dalla zappa, pieno di rughe, nero per la troppa esposizione al sole, che si recava in campagna in groppa al mulo, certamente sì.

Ma è veramente scomparso? No e fino a quando ci sarà agricoltura ci saranno contadini. Essi potranno assumere nomi diversi: “Olivicoltori, viticoltori, ortolani, frutticoltori, operatori agricoli, ma devono avere acquisito una cultura tecnologica ed essere specializzati in colture specifiche. Essi, oggi, effettuano quasi tutti i lavori con mezzi meccanici, non mietono e non pisanu più e non affittano più le proprie braccia, ma mettono a disposizione il proprio cervello. Essi si recano nelle aziende agricole in machina, vestiti per bene, lavorano otto ore al giorno, percepiscono redditi molto decenti, ma sono sempre lavoratori della terra eredi dei contadini di un tempo.

Vincenzo Comparato