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Vito Mauro
 
Epilogo
 
Eduardo Paladino
 

Mi chiamo Eduardo Paladino, sono nato a Ciminna nel 1958, sposato, papà di Maria, domiciliato in Piazza Matrice, n. 10. Tutti mi chiamano Dino, lavoro nella città di Palermo.

Più di 35 anni fa, mio padre, con il quale andavo spesso in campagna, mi ripeteva frequentemente che l’attività del coltivare la terra, nonostante gli sforzi che si facevano, non sarebbe stata sufficiente a farci vivere dignitosamente e di conseguenza sarebbe ben presto scomparsa. Da allora mi è venuta un’idea e, accarezzandola giorno dopo giorno, l’ho portata avanti fino ad oggi, decidendo di comprare una macchina fotografica semiprofessionale. Per acquistare la macchina fotografica e conoscere il posto nel quale sviluppare i rullini più in fretta possibile, mi faccio accompagnare da Totò Passantino, il quale mi presenta un rivenditore suo amico che mi consiglia una macchina fotografica Pentax. Concluso l’affare, ritorniamo in paese.

Il mio pensiero permanente era che nel mio paese qualcosa cambiava molto velocemente e pian piano stava scomparendo.

Io, con quella macchina fotografica che portavo sempre con me, cercavo di immortalare quello che sembrava non si sarebbe più visto da lì a poco tempo dopo, per effetto del cambiamento che avveniva giorno dopo giorno inesorabilmente, ivi compreso il genere umano che la legge divina prevede.

Girando in paese e nelle campagne, ho iniziato a fermare il tempo con l’obiettivo; fotografavo persone intente nel lavoro dei campi e parlando con loro, affermavano che qualora si sarebbero ritirate, nessuno o quasi, dopo di loro, avrebbe più continuato a fare quel lavoro molto faticoso, senza orari e poco remunerativo per i prodotti raccolti.

Fotografavo anche alcuni artigiani come: il fabbro, il calzolaio, il falegname, il carbonaio, il muratore, il bastaio e tanti altri.

Di questo lavoro ho sempre avuto intenzione di scrivere un volume, Orme del tempo, a testimonianza di un tempo, anche non troppo lontano, di cui si stanno perdendo le tracce.

Nel mio paese, si sa, non ci sono passatempi adeguati per i nostri giorni. Ognuno si arrangia come può. Ad esempio giocare a carte nei bar e nei circoli, con le bocce al “castello” non è più praticato per mancanza di giocatori, mentre nelle adiacenze del campo sportivo si continua a giocare con le bocce. Un altro passatempo (si fa per dire) è la caccia.

Parlando con alcune di queste persone gli chiedevo se fosse stato contento del nostro contesto sociale. La risposta, quasi unanime, è stata la seguente: “Qui non abbiamo niente ed andiamo avanti lo stesso.

Dove c’è molto, come nei paesi di mare, nei paesi turistici e nelle grandi città, con le pensioni che abbiamo, non si va neanche all’inferno. Quindi prodigatevi voi che siete giovani per avere un futuro migliore”.

Da questa risposta viene fuori una vita che è già passata non proprio nel migliore dei modi.

Io posso usufruire di un po’ di tempo libero e mi soffermo nell’ambito del vicinato parlando con delle persone con moltissime primavere sulle spalle, tranne qualcuno.

U ‘ZU MARTINU CAMPANELLA, ‘MPEATU NON ‘ZU ‘NTONI PIRITEDDU, EPISCOPO: lavorava nei campi dall’alba al tramonto, cibo quello che passava il convento, mi disse: “mi bastava per andare avanti” e con commozione aggiunse: “ricordati che ero bambino”.

A ‘ZA JANIDDA LAZZARA, vedova del sig. Comparato, con il quale si sposa non appena rientrato dal servizio militare, ricorda che subito dopo la funzione religiosa, il marito, rivoltosi ai suoceri, evidenziava di non possedere altro che i vestiti che indossava, rassicurandoli però che si sarebbe impegnato per fare in modo che la giovane moglie conducesse in futuro una vita dignitosa. La signora, inoltre, ricorda che non appena sposata aveva difficoltà a cucinare per la mancanza di pentole e utensili da cucina, e che, tuttavia, nel giro di una settimana, insieme al marito, era riuscita a risolvere il problema.

MICHELE LAZZARA: Parte per la Svizzera. Dopo pochi anni ritorna in paese. Prima di partire per la Svizzera, a suo dire, in paese non è stato né ragazzino, né giovanotto, dovendo lavorare giorno dopo giorno, da mattina a sera, a volte anche digiuno, per aiutare la famiglia ad andare avanti. Ritornato in paese compra un bel mulo. Lo chiamò “Ciccio”. Lo addestra. Tale mulo rimaneva libero davanti la porta di casa ed anche quando si allontanava, non c’erano problemi, infatti, bastava che Michele si affacciasse e gli gridasse: “Ciccio veni ‘ccà ca ni nnamu a ghiri” che l’animale si avvicinava prontamente e si lasciava bardare, gli si caricava l’occorrente per la giornata lavorativa e si partiva per la campagna, nei terreni di sua proprietà ed in quelli coltivati a mezzadria o gabella, sempre con la massima diligenza.

Essendo mio vicino, era nata una certa frequenza con i miei familiari e li sentivo parlare fra di loro. Una volta mio padre gli disse:

Michè quannu cumenci a sciaccari? Rispondeva Michele: ’a simana chi tràsi. Io ascoltavo, assimilavo, cercavo di capire questi termini usati per i lavori. Un’altra volta mio padre gli disse: Michè chi ffa cominciasti a fùnniri? Rispondeva Michele: Pè ivi a taliari, va bbonu chi pèrdu àutru tempu?

Non molto lontano da questo giorno nel ricordare queste espressioni in dialetto pensavamo entrambi che quasi tutte queste espressioni avrebbero fatto posto ad altri termini perché non essendoci continuità, devono per forza scomparire. Mentre parlavamo di queste cose, passa un ragazzo a bordo di un motorino Michele lo chiama “attìa veni ccà” il ragazzo si avvicina e chiede: ’zu Michè chi boli?

Risponde Michele: “to patri ti l’ha ‘nsignatu chi voldiri fùnniri, datu ca avi ancora ‘u mulu?” Risponde il ragazzo un secco no e aggiunge:

“sacciu sulu ca fùnniri è quannu si rùmpi un muturi ra machina” saluta a va via.

Ci siamo guardati in faccia Michele ed io e ci siamo fatti una risata.

Michele esclamò: “Tutte queste cose sono quasi scomparse”.

Era l’epoca in cui i lavoratori della campagna sgobbavano dall’alba al tramonto nei propri terreni. Ma si verificava pure che gi stessi lavoratori lavorassero nei terreni altrui ed alla fine si dividevano il raccolto con i proprietari nella seguente maniera: du parti e ‘na parti solo che le due parti andavano al padrone dei terreni, come da accordi presi in precedenza e con il famoso detto: “prendere o lasciare”.

Anche i burgisi dovevano sgobbare nei propri terreni; la differenza stava solo nel fatto che alla fine non dividevano con nessuno il proprio raccolto.

U ‘ZU VICENZU LAZZARA, partito per il servizio militare, partecipò alla guerra e per evitare la deportazione nei campi di concentramento, trovò rifugio, per circa otto mesi, presso una famiglia di Udine. In detta famiglia conobbe Angela, se ne innamora, la sposa e con lei torna al paese, dove tutt’oggi vivono e lavorano nell’agricoltura, possiedono una decina di mucche, che sono accudite nella stalla, soprattutto dalla moglie. Classico esempio di culture diverse.

Insieme per motivi specifici, affrontano la vita, coltivano i loro sogni e li realizzano, con tanto di sacrifici in un percorso impervio e pieno di ostacoli.

U ‘ZU COLA MASI: contadino e nelle occasioni, anche sensale che mi racconta cose di 40 anni fa, di lutti veri e propri, che colpivano intere famiglie per la morte di un animale da soma e la disperazione, perché non si poteva più comprare nulla.

MASTRU VICENZU MASI: negli anni ’60, parte per la Gran Bretagna e dopo pochi anni ritorna in paese. Compra una cavalla ed inizia il lavoro nei campi di sua proprietà, nonché nel settore terziario.

All’occasione eccolo anche barbiere. Siccome mastru Vicenzu partecipò anche lui alla guerra e, aiutato da questo evento, riuscì a impiegarsi presso lo stabilimento Fiat di Termini Imerese, che all’epoca era una fonte di occupazione.

A’ZZA CICCINA mi descrive alcuni aspetti di vita del primo Novecento. Detti episodi sono raccontati dalla memoria viva di una anziana donna che, al solo pensiero di ripercorrere anni così difficili e lontani, non trattiene la commozione, in quanto le affiorano alla mente i ricordi della semplice vita che conduceva allora, nonché i volti di persone che non ci sono più.

Inoltrarsi a ritroso, con la memoria, nelle vie e nei cortili (perché nei cortili, come da secoli, si viveva insieme la vita della comunità) di una Ciminna di novanta anni fa è come trovarsi di fronte un paese totalmente diverso; diversi erano i ritmi della vita di lavoro, diversi i tempi della vita sociale e soprattutto diverse erano le esigenze di questi nostri predecessori, che si aspettavano dalla vita solo il necessario per vivere dignitosamente e per fronteggiare quella atavica nemica che da millenni congiura contro l’uomo e che si chiama “fame”.

Il pensiero di come la propria madre, il proprio padre o la propria suocera avrebbero potuto esprimersi se avessero guardato, anche per un momento, la nostra società odierna, fa sorridere la signora Francesca Passantino!

Ecco perché subito dopo il rammarico per la futilità dei comportamenti di oggi prende sopravvento il pensiero di quanti, lei compresa, soffrirono nei primi anni venti, tutti i giorni, soprattutto durante e subito dopo la seconda guerra mondiale, il freddo e la mancanza del pane; e di come fosse difficile, anche per chi come il marito Gino era armato di ferrea volontà di lavorare, trovare tutti i giorni il necessario per sfamarsi.

Questa era la situazione nella quale versava la stragrande maggioranza degli uomini e delle donne di quegli anni, sebbene nella comunità c’era anche una piccola minoranza che non soffriva il freddo e le privazioni.

La signora poi ricorda anche gli aspetti felici della sua vita e sorridendo, come per rimarcare la differenza tra la sovrabbondanza di oggi e l’inevitabile semplicità di allora, ripensa al suo matrimonio con un vestito cucito da una vicina e con un bbanchettu con non più di dieci invitati, pochi dolci sul tavolo e un poco di vino; e poi si commuove nel ricordare l’atmosfera gioiosa che l’amico e vicino di casa, per un paio di serate, seppe offrire con un poco di sonu per poi ritornare tutti a casa, compresi gli sposi; i quali il giorno successivo non avrebbero certamente avuto la frenesia per i preparativi relativi alla crociera di nozze.

Tutti a casa in compagnia di una candela ad olio (solo dopo il lume a petrolio), di un tavolo con due sedie, sulle quali non si poteva sedere chi era un poco pesante, di una panca e di un piccolo armadietto, sul quale faceva mostra tutto il necessario, e solo quello, per la tavola:

quattro piatti, due bicchieri, le forchette, i coltelli, i cucchiai, e la brocca per prendere l’acqua da una piccola giara, riempita in una delle numerose fontane sparse per le vie del paese; e per riscaldarsi c’era ’u cufularu fatto di legno e rivestito di gesso.

Se poi il ricordo va alla stanza da letto, che scherzando paragona a quelle attuali dove non c’è mai spazio sufficiente per riporre il corredo, ricorda come nella sua prima abitazione non vi trovassero posto che il letto cu pagghiuni e soltanto un paio di lenzuola che si guardava bene dal lavare quando pioveva per non correre il rischio che non si asciugassero; e per le coperte in inverno si intuiva che era preferibile non esprimersi con troppa disinvoltura al plurale.

Fa sorridere come ciò che oggi si fa in nome della crescita felice o dell’ecologismo più virtuoso, queste donne e questi uomini lo abbiano fatto quasi cento anni fa; come ad esempio l’autoproduzione della lisciva filtrata dopo aver bollito le ceneri dei gusci delle mandorle verdi bruciate.

E su come in prossimità della Chiesa di San Rocco si stendessero a terra sull’erba le lenzuola ad asciugare.

Oppure sull’utilizzo come dolcificante per il caffè (o meglio per un suo surrogato) dei rami di liquirizia infornati e poi macinati.

Nonostante le privazioni e le difficoltà, un aspetto che colpisce è il piacere con il quale si ricorda la vita comune di quel tempo; in particolare, i preparativi alle feste, i cunti della sera che ancora oggi si ricorda per la complessità della trama e per la fantasia inesauribile di quei pochi che ne conservavano l’arte.

E poi il ricordo va a coloro che addirittura mangiavano anche le ghiande, proprio come i maiali; o ai tempi più duri durante i quali se nella padella si scioglieva un poco di estratto di pomodoro con delle patate, ci si poteva ritenere fortunati perché a letto lo stomaco non avrebbe potuto, oltremodo, protestare.

U ‘ZU VITU RIBAUDO: un lavoratore nato, fisico da lanciere.

Lavorava in continuazione, come del resto un po’ tutti. Certo, per me che scrivo queste testimonianze, queste persone, vicini di casa, mi hanno aiutato moltissimo. (Non posso mica scrivere la versione di ciascuno del mio paese, non vi riuscirei).

Un giorno, intorno alle 12, mentre ero seduto nella panchina di fronte casa, arrivano due distinti signori con un’auto grande e lussuosa.

Mi si avvicinano chiedendomi se per favore posso indicare loro un baglio di campagna, in quanto loro lavoravano per una grossa ditta di pubblicità. Mentre succede ciò, arriva u ‘zu Vitu dalla campagna vicina al paese con ‘u zzappuni sulle spalle. Lo chiamo, lui si avvicina e gli chiedo cosa cercano quelle due persone. Uno di loro chiede o ‘zu Vitu cosa facesse con quella zappa. U ‘zu Vitu rispose:

«stu zzappuni ‘nna muvutu terra, ‘nna squasatu vigna (mimando il lavoro) ‘nzumma ci haiu campatu ‘ na famìgghia».

Quei due signori non capiscono le parole (poiché, pur entrambi francesi, capivano e parlavano un po’ l’italiano) per istinto si portano le mani ai capelli.

U ‘zu Vitu gli indica sulla mappa un paio di posti, poi io stesso li accompagno nelle vecchie case di Palmeri. Arrivati sul posto, questi mi dicono: - qui il posto è bellissimo ma è troppo malandato, quasi demolito, per quello che dobbiamo fare non va bene. Ringraziano, salgono in macchina e si allontanano. La cosa non mi dispiacque perché dovevano rappresentare un matrimonio forzato, come se dalle nostre parti ciò avvenisse normalmente.

U ‘ZU MATTE’ RIZZO: nella sua casa è entrata la prima televisione del quartiere, anni ’60. Alle ore 17 ci permetteva di vedere la TV dei ragazzi, 20 minuti di film: Zorro, Rin tin tin, Lassie, Il gatto Silvestro.

Poi tutti fuori in strada per giocare, fino al tramonto, con un pallone di gomma, formando due squadre di ragazzi, noi del quartiere “Matrice”, contro i ragazzi del quartiere “Putieddi”, Peppi Broccolo, Sariddu Castagna, Siroru Graziano, Giovì Iraci, Micheli Milazzo, Peppi Oliveri, Toto Oliveri, Peppi Pincituri, Marianu Tortora. La sera alle otto, sull’unica rete (il primo canale) trasmettevano il telegiornale.

U ‘zu Mattè dopo averlo ascoltato ben bene, con voce piena di rabbia che gli usciva dal cuore e gli gonfiava il petto diceva: “A Roma unecchi c’è u guvernu ci avissiru a ghittari ‘na bbumma quantu murissuru tutti ‘nta na vota” e noi, nel sentirlo parlare così, chiedevamo:

“A picchì ‘zu Mattè?” e lui rispondeva: “Abbiamo fatto la guerra per loro, ma a chi è servita? Tutti quelli che siamo ritornati siamo storpi ed io che la mano destra non la posso utilizzare, per campare devo “mazziari a petra pi fari u issu, ‘nta carcara a santalania”.

U ‘ZU PEPPI SCIMECA, quasi la stessa sorte degli altri. Lui il più grande della famiglia, lavorare per sfamare l’intera famiglia con le atrocità della guerra in Jugoslavia sulle spalle. Ci raccontava delle cannonate, della fame patita dal suo amico nella postazione in trincea, morto con un colpo di fucile sparato dal nemico. Già il nemico! Un uomo, come lui, che eseguiva degli ordini: abbattere il nemico. Chi si è salvato è stato più fortunato degli altri. Quando in televisione si vedevano i documentari dei lager nazisti o ‘zu peppi gli si riempivano gli occhi di lacrime ringraziando il buon Dio per essersi salvato da quel terrore e ci ripeteva con insistenza: “ricordatevi che queste cose sono realmente avvenute”.

E ancora il signor Tolentino Filippo, U ‘ZU FULIPPU, a 12 anni ‘mpeatu, come tuttofare, presso la masseria della famiglia Menna di Baucina.

Il lavoro era svolto in montagna, al freddo ed a volte in mezzo alla tormenta.

Si dormiva in un pagliericcio, pagghiaru, quando andava bene e spesso anche all’addiaccio.

Quasi tutti i giorni con pochi viveri, molta verdura, poco pane, poco pasta e quasi mai carne.

Mi racconta: a 21 anni, inizia la parte più difficile della mia vita, parto per servire la Patria, di prima istanza a Verona, poi a Durazzo in Albania ed infine ad Atene in Grecia.

Neanche il tempo di rientrare in Italia, che sono immediatamente richiamato per partire per la guerra di Russia.

L’esercito allo sbaraglio, avanzavamo per raggiungere il fiume Don, mentre si moriva di stenti.

Poi la ritirata e si continuava a morire di fame e di freddo.

Non avevamo la forza di continuare, subivamo gli attacchi continui dei partigiani russi.

Abbiamo perso la guerra, sono stato deportato ed in quell’occasione ho imparato a parlare il russo e spesso ci chiedevamo: vièste’ smieniàt’sievòdnia?

(cosa succederà oggi?), kàk byt’ zàvtra? (come sarà domani?), kogdà podoschòl a dom? (quando torneremo a casa?). Pur tuttavia, sono stato fra i pochi fortunati a non lasciarci la pelle ed anche se ho patito la fame e un’indescrivibile sofferenza, camminando furtivamente di notte, sono riuscito a farcela ed a ritornare a casa.

Ero, assieme a tantissimi miei compagni di sventura, analfabeta e soprattutto un ignorante che non sapeva nulla della vita, ma lo erano a maggior ragione i nostri governanti.

Pazzi coscienti della loro pazzia, ci mandavano allo sbaraglio, come cagnolini da camera ad affrontare dei lupi in montagna.

Rientrato, ritornai ad affrontare il lavoro, allora durissimo, che per la verità dava solo quel poco per sopravvivere, ma ero comunque felice, perché almeno non c’era più la guerra ed in tutta la nazione si respirava un’aria tutta pregna di libertà e pace.

Proprio così, libertà e pace.

Poi c’è mio papà Peppe. Di lui ho un ricordo sempre vivo. Papà rimasto orfano di padre, perché mio nonno ammalatosi in guerra, morì subito dopo.

Papà rimasto con la sua mamma ed il fratello Michele ed il fratello, acquisito, zio Paolo, iniziano il duro lavoro. Michele falegname, in seguito inizia gli studi e con un po’ di fortuna diventa cassiere di banca, mentre lo zio Paolo fa il commesso di banca. Papà Peppe rimane nel cosiddetto terziario, dovendo sudare le famose sette camicie affrontando di pieno petto il duro lavoro che lo aspettava nei campi, come del resto si trovavano quasi tutti quelli della sua generazione.

Le donne della nostra Ciminna, tranne qualcuna, che acquisite le dovute conoscenze, ambiva giustamente ad una vita migliore, le altre come si diceva allora, tutti fimmini di casa, che accudivano alla prole, talvolta numerosa, avevano un occhio particolare per gli anziani, presenti in casa in ogni famiglia. Siccome allora non vi era l’abitudine di portarli all’ospizio né di curarli in ospedali, si faceva tutto in casa, perciò capirete il lavoro faticoso e giornaliero che dovevano affrontare, per poi passare alle faccende di casa.

Alzandosi la mattina presto per aiutare i loro uomini che si apprestavano alla partenza per la campagna e quindi iniziare tutta una serie di lavori domestici: primo tra tutti, preparare il cibo. Cibi di allora, con prodotti delle nostre campagne, sapori che ancora esistono grazie a queste donne, portando avanti la nostra sicilianità e la mediterraneità della nostra Sicilia.

Un’altra cosa di cui ho voglia di scrivere è l’essere ragazzi di quei tempi, dove vigeva da parte del ragazzo, il massimo rispetto e l’educazione, ad incominciare dal dovere fare un mari di survizza, primo fra tutti, portare il cibo ai nonni che non abitavano assieme al proprio nucleo familiare, o non erano in grado di prepararselo.

Per quanto riguardava le femminucce, finendo l’età dei giochi dopo le scuole medie, rimanevano in casa ad imparare l’arte della cucina, il ricamo o si recavano dalla sarta. Noi maschietti, per poter avere la possibilità di vederle, dovevamo aspettare o le processioni o le domeniche in chiesa per la Messa, dove tutte le donne con il velo in testa si sedevano nella navata di fianco a quella dove erano seduti gli uomini; o all’uscita dalla chiesa, mentre passavano fra due ali di uomini in attesa, usciti prima, per rivederle prima che rientrassero a casa e per scambiarsi un ultimo sguardo d’intesa. Nel scrivere questi ricordi sono assalito dalla nostalgia e penso: “FORSE QUELLI ERANO TEMPI MIGLIORI?”

Un po’ tutte le persone con cui ho avuto il piacere di parlare, hanno un ricordo indelebile di un fatto avvenuto in un’assolata estate del 1962 che anch’io ricordo: le comparse per la realizzazione del film “IL GATTOPARDO”. Le riprese di questo film hanno fatto sì che una buona parte di persone con al seguito alcune volte anche animali, prendesse parte alle comparse. Con questo lavoro percepivano un compenso (tremilacinquecento lire per ogni comparsa e tremila lire per l’animale al seguito). Io ricordo che la mia mamma, essendo nel quartiere Matrice, vendeva alle persone di questa troupe un gadduzzu cinquecento lire, un pane fatto in casa di circa un chilogrammo, cento lire. Pensate i benefici di tutti questi soldi immessi nella nostra economia paesana. In quei tempi in cui esisteva ancora il baratto (un chilogrammo di arance una crozza di fave, tre chili di pere due crozze di frumento, ecc. ecc.). Tutti questi soldi hanno contribuito in parte a dissolvere alcuni debiti protratti nel tempo delle cosiddette vacche magre e dare respiro alla nostra economia.

Certo è che ai nostri ragazzi non si può rimproverare nulla in quanto non hanno conosciuto per loro fortuna il lavoro così massacrante come descritto nelle poche, ma sufficienti, testimonianze, per far capire quali sono stati i tempi vissuti dai nostri nonni prima, e dai nostri padri dopo. Il cambiamento è avvenuto per il meglio facendo sì che si dimentichi una cultura contadina che, grazie agli anziani, ancora sopravvive.

Io, insieme a mio fratello Vito e ad alcuni amici (Nino Giglia, Totò Passantino, Vito Avvinti, Peppe La Paglia, Piero Lo Sciuto, Francesco Criscione, Vito Urso Russo, ed altri) associati in un club nei locali dell’Oratorio abbiamo avuto l’idea di allestire una mostra di “ARTI E MESTIERI” alcuni dei quali in via d’estinzione.

Successivamente è nato un Museo permanente in Via Roma (nei locali dell’ex Pretura). Io, avendo del tempo libero, un giorno ricevo la visita di un insegnante della locale scuola che mi chiede l’orario di apertura per portare i propri alunni a visitare la mostra. Ebbene, alla fine abbiamo ricevuto la visita di tutte le scuole presenti nel nostro paese. Io ho spiegato nei minimi particolari alla scolaresca i vari mestieri. In questo lavoro di cicerone mi ha colpito una cosa: che i ragazzi specialmente i più grandicelli rimanevano a bocca aperta nel vedere con gli occhi gli attrezzi di lavoro che usavano i nostri padri per sostenere le proprie famiglie. Un ragazzo esclamò: ”ma tutto questo è come una strada senza uscita”. Io gli risposi: “o questo o niente, tranne l’emigrazione”.

Un professore non credeva che un paio di trunchetti chi tàccia del peso di un chilo e mezzo per ciascuna trunchetta si poteva usare nel lavoro dei campi, mentre un altro professore dispose la scolaresca a cerchio vicino alla quarara e spiega loro il procedimento della trasformazione del latte in ricotta. Io gli dico, sbalordito: professore come mai tanta precisione in questa spiegazione? Mi rispose: mio papà ha le pecore. Nel susseguirsi di questa bella esperienza una professoressa molto perplessa mi chiede: signor Paladino ma questo è uno strumento musicale? Indicandomi una cannata. Naturalmente le ho spiegato cos’era ed a cosa serviva.

Man mano andavo avanti nella spiegazione mi appassionavo sempre più cercando di far capire ai visitatori ciò che vedevano tramite oggetti o tramite fotografie (‘nzilistrari, siminari a spagghiu o a ria, metitura ru furmentu, pròiri i jemmiti, ‘nfasciari cu l’ancinu, stravuliari, pisari ‘nta ll’aria, spagghiari, vutari l’aria, annittari), tutto il processo dalla semina al raccolto del grano. Raccolto che era portato a casa con i muli e poi scaricarlo nei solai che abitualmente erano situati nei piani alti delle case (minimo due scale da salire con i sacchi caricati sulle spalle).

Per dare un’idea, in un anno agricolo, a casa mia abbiamo raccolto:

vintitrì sarmi di furmentu, tridici sarmi di favi, deci sarmi di avena, sessanta ‘mpalli di pàgghia, diciotto mazza di fenu e poi ancora, mènnuli, alivi, ciciri ed altro. Una vera ricchezza. Papà mi disse con soddisfazione:

pi avannu semu appostu, pi l’àutru ci penza Diu.

Sempre dentro l’Oratorio mi avvicino ad un ragazzo robusto e gli dico: vieni che ti faccio provare un attrezzo: la fullana. Gli dico quali movimenti fare. Lui inizia tra lo stupore dei presenti. Sette - otto bracciate e si ferma. Mi dice: ”Dino questo lavoro è molto faticoso, sono già stanco”. Gli rispondo: “ma lo sai che i nostri padri lo facevano per un mese intero?”. Il ragazzo preso alla sprovvista trattiene il respiro, poi riprende dicendomi: ”è sicuro che non avevano problemi di palestra con questo lavoro, gli addominali si fanno in automatico”.

Continuando a parlare con i ragazzi gli dicevo che noi ragazzi del tempo dovevamo abbarari pa crapa, cummàttiri cu porcu, arrisittari ’i addini, purtari u mulu ‘na bbiviratura, striggiallu e darici a manciari, infine pulizziari a stadda.

Vedendo un ragazzo con una sigaretta accesa gli vado vicino e gli chiedo: senti, ma non hai niente di meglio da fare? Lui mi risponde con voce pacata, quasi sottomessa: ”di solito fumo, quando vado al cinema oggi mi sembra di essere al cinema dove proiettano un bel film antico, mi piace”.

Di certo non posso scrivere tutto, altrimenti un libro sarebbe poco, tuttavia credo che chi leggerà è supportato dalle fotografie, istintivamente è portato a pensare che il peggio è passato.

Andando avanti, tra lo stupore collettivo ed incredulità stampata sul viso dei ragazzi, mi fermo nel reparto giochi e racconto loro i giochi praticati nell’infanzia dell’epoca. Tutti quelli del mio quartiere Matrice (mi piace ricordarli): ‘me frati Vitu, Ppeppi ’ra ‘zza Anninuzza, Vincenzu ‘ra ‘zza Gnesa, Minicheddu pruvurenzia, Vincenzu minestra, Mimiddu ‘ra ‘zza Pitricchia, Santu di mastru Micheli, Peppi puntiddu, Vitu savoca, i ru Pierini brancati,Nnardinu ‘ra ‘zza Sabedda, Ninu Scimeca, Ppeppi ‘ra ‘zza Vicinzina e Totò nucciareddu abbiamo iniziato i nostri giochi con i bottoni, prima si andava a survizzu, per premio ci davano i bottoni e ce li giocavamo. Come alternativa avevamo: ‘i catinelli,’i lanniceddi, ‘u cuculuni, ‘a strùmmula, ‘i ligna, ‘u campanaru, ‘u fussiteddu, ‘a ria, ‘a spacca maruni, ‘o muriddu, ‘u carruzzuni, ‘i bituna ri plastica pi sciddicari’ na scinnuta ri vecchi litri, ‘u passettu, acchianata ru patri cu tutti i so figghi, guàrdia e latri, ‘a rrènnita (non era altro una presa a sassate tra due schieramenti di quartieri diversi), le figurine dei calciatori, gioco di bocce al castello chiamato ‘u vecchiu cu i deci liri. Vincendo dei soldi si andava al cinema o ni Vicenzu pincituri e putieddi per comprarsi un gelato. Ma erano giochi praticati da tutti i ragazzi del paese e non solo da quelli del mio quartiere. con Santo Lazzara, Peppe Sarmini e Vincenzu Puglia andavano a pascolare le capre a Santalania.

Alcuni continuavano gli studi a Palermo.

Quei ragazzi che ascoltavano in silenzio ed in perfetto ordine chiesero al professore se nella scuola potevano organizzare a titolo dimostrativo quella sopra citata serie di giochi. Il professore senza perdersi d’animo e sbalordito da quella richiesta rispose loro: “non è stato il vostro tempo, sono giochi che non vi appartengono, ormai sono parte del passato che oggi grazie al sig. Paladino riviviamo con immenso piacere, ma tuttavia se voi domani dovreste fare questi giochi, vi sentireste ridicoli. Comunque se un giorno venite in classe con i pantaloni arripizzati e i scarpi spuntati possiamo farli, anche per calarci nella veste di quei ragazzi.

I ragazzi quasi tutti insieme esclamarono: “professù com’è pazzu?”

Il professore continuò: “ragazzi quello che avete visto e ascoltato è la pura verità, allora vi supplico: studiate, formatevi, cercate di raggiungere livelli altissimi, sappiate che più cultura si ha, più miglioreremo la nostra vita e quella di chi ci seguirà”.

Anch’io, ascoltando il professore, mi rendevo conto che anche lui aveva assaggiato un po’ di quel passato.

Nota a parte meritano tutti gli emigrati che avendo avuto il coraggio di partire per altri Stati con tantissime difficoltà di ogni genere, prima tra tutte quella di non parlare la stessa lingua, ma con tanta volontà di realizzare quello che non si poteva realizzare, anche lavorando nel nostro paese, si sono messi a lavorare. Lavoro normale, ma anche durissimo, lavoro che gli permetteva di stare bene e nello stesso tempo di risparmiare. Risparmi che puntualmente pervenivano in paese, mettendo in moto la nostra economia che permetteva anche a noi in paese di lavorare e stare bene.

Grazie a tutti questi emigranti, grazie e ancora grazie.

Altra nota a parte ma non meno importante, merita la costituzione nel paese di una Associazione di Volontariato, messa su con grande impegno da un gruppo di volenterosi e con l’immenso aiuto ricevuto dagli emigrati che hanno sostenuto la giusta causa con grande slancio, permettendo all’Associazione di acquistare un’autoambulanza da adibire per il trasporto di ammalati presso i presidi ospedalieri vicini. Di questa Associazione ne faccio parte anch’io con mansioni di autista e l’esperienza acquisita in questo campo è pressocchè indescrivibile.

Ancora un’altra esperienza nel campo sociale che ho acquistato nel tempo è stata quella di aver salvato da un annegamento in mare un mio coetaneo, Giuseppe, allorché non era in grado di nuotare e riemergere dall’acqua, dove con molta superficialità si era buttato per farsi un bagno. Quell’input mi ha successivamente temprato ed incanalato verso il senso del dare nel campo sociale.

Nel nostro paese la Sezione Comunale dell’AVIS è impegnata attivamente nella promozione della cultura del dono e annualmente, con l’impegno dei soci volontari, raccoglie un numero sempre più ragguardevole di donazioni del sangue, a dimostrazione della generosità e sensibilità dei Ciminnesi.

Un’altra associazione da menzionare è la Pro-loco, la quale dopo anni e anni d’attesa, è ora funzionante.

A Ciminna esiste, inoltre, l’Associazione Calcistica che con cinque squadre giovanili impegna i nostri giovani ed anche quelli dei paesi vicini.

Esiste pure l’associazione “Nuovo Teatro Alfieri” che con il coro parrocchiale anima durante l’anno con qualche spettacolo, le serate paesane.

Di recente è stata istituita un’Associazione di Protezione Civile, organizzazione ormai necessaria e indispensabile in ogni comunità per trovarsi pronti e organizzati a fronteggiare un’eventuale calamità naturale, a fianco delle strutture pubbliche nazionali e per diffondere una nuova cultura fondata sulla prevenzione e sul coinvolgimento attivo dei cittadini.

Non è possibile dimenticare, infine, la banda musicale di Ciminna “Giuseppe Verdi”, inizialmente formata perlopiù da artigiani, che interviene in tutte le più importanti manifestazioni che si svolgono in paese. Essa ha un ricco repertorio di successi e riconoscimenti anche internazionali, che hanno dato e continuano a dare lustro al nostro Paese.

Concludo questo racconto, consapevole di non aver detto niente di nuovo. Ho avuto il tempo di farlo, con il pensiero rivolto a tutte quelle persone che con spirito di sacrificio e grande umiltà nel fabbisogno quotidiano, hanno contribuito ognuno per la sua parte a poter stilare quanto sopra per dare un messaggio a chi non ha vissuto quei tempi. Grazie a loro, noi generazione futura, abbiamo avuto benessere e sviluppo, abbiamo visto i nostri desideri concretizzarsi senza il bisogno di doverci alzare la mattina dal letto di buon’ora e non sapere dove andare.

Ora purtroppo il mondo intero soffre di malanni: guerre di ogni genere, malattie insuperabili, droghe, alcoolismo, pedofilia, prostituzione, ecc.

Dovremo tutti reagire e nello stesso tempo rimanere uniti, avere rispetto per il prossimo e tanta, molta, moltissima fede.

Alla fine di questo racconto, chiedo scusa se appaio un po’ patetico, ma le mie numerose attività nel sociale, soprattutto nel nostro paese, ma anche quella nell’ambito del mio lavoro, nel servizio pubblico come l’Amat (Azienda Municipalizzata Auto Trasporti) di Palermo, di cui mi onoro di far parte, consistenti nell’avere incontrato persone di culture diverse, ragazzi benestanti, emarginati, in posti che ci appaiono lontano, mentre li troviamo appena dietro l’angolo, mamme che non hanno niente da dare ai loro bambini, genitori senza lavoro, pensionati che con la sola pensione pagano l’affitto di casa e non gli resta altro per mangiare, ragazzi succubi anche senza volerlo di situazioni più grandi di loro, sofferenti, soli, protagonisti in negativo della loro vita e quella dei loro familiari, gente che va a letto prima che inizia la santa Messa della notte di Natale perché inermi di fronte alle difficoltà che incontrano e non riuscendo a prendere il sopravvento nelle situazioni difficili, hanno creato in me un grosso bagaglio di esperienza, purtroppo quasi tutta, in negativo.

Tuttavia, nella vita sociale qualcosa di positivo emerge, e spero che questo qualcosa possa diventare nel futuro il traino principale per una migliore esistenza, soprattutto per quella dei giovani del nostro paese che spesso sono demotivati. La speranza di un futuro migliore comprende soprattutto, per una persona giovane, la possibilità di realizzarsi nella maniera più completa possibile, raccogliendo i frutti di anni e anni di sacrifici nello studio. È necessario non prendere tutto alla leggera o essere superficiali, ma bisogna affrontare le situazioni con serenità ed entusiasmo e con l’ottimismo cristiano che nasce dalla fede. In particolare, dobbiamo avvalerci della forza delle relazioni sociali, da sviluppare non solo nei confronti dei coetanei ma con tutti e farci aiutare dalla forza dei sentimenti, delle idee, delle esperienze condivise che rendono creativi anche i momenti di solitudine.

Ritengo che la fiducia e l’amore per la nostra terra, quella in cui si è nati e si vive, per le sue tradizioni e la sua storia, possono essere senz’altro da traino verso le nuove sfide.

Eduardo Paladino

 
 

Nella vita puoi essere l'ultimo, in una comunità, per l'estrema semplicità che ti fa definire... lo scemo del paese... Ma io, che conosco Nino da quando ero bambino, amo dire che non puoi appartenere alla comunità di Ciminna se, prima, non conosci Ninu Lavina. Uomo semplice e buono incapace di badare a se stesso, è stato adottato da tutta la comunità paesana e non penso di sbagliare se affermo che in fondo, a Ciminna, tutti gli vogliono bene... almeno un pò. Ciao Nino.

 

Nino è andato a trovare i suoi antenati, ma a Ciminna ha lasciato il segno e per molto tempo sarà ricordato da tutto il paese.

Santino Gattuso

 

Antica usanza del paese era quella di mettere dietro la porta un cartello, quando veniva meno un caro defunto, in questa foto possiamo vederne un esempio con la scritta logora resa ormai invisibile dal battere del sole.

 
Funerale
 
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Fontana
 
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