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Inseparabili il gesto e la parola

di  Marco Pacori

 

 

     Chi non conosce uno di quegli individui che possiedono una gamma di espressioni che va dal cipiglio allo sguardo glaciale ... e di poche parole? E chi non si è sentito una volta o l'altra nella vita così teso e impacciato da non trovare niente da dire o non sapere come rispondere?
Cosa hanno in comune questi due esempi? L'assenza o la rarità dei gesti. Da quanto è emerso da uno studio in corso di pubblicazione di Robert Krauss e Ezequiel Morsella della Columbia University di New York, parlare fluentemente, in modo colorito, avere la battuta pronta è legato all'espressività e alla quantità dei gesti che facciamo durante il dialogo. E sembra che ora se ne siano individuate anche le basi neurologiche.

     Si suppone da tempo che il linguaggio abbia avuto origine dai gesti e le osservazioni sull'acquisizione della parola sembra avallare questa ipotesi; solo in tempi recenti ci si è accorti che l'espressione verbale ha tutt'altro che soppiantato i gesti e che proprio questi ultimi sono parte integrante della facoltà di parlare con proprietà e scorrevolezza.
     Una delle prime osservazioni al riguardo la si deve allo psicologo Bernard Rimé dell'Università di Louvain in Belgio che ha notato come quando nel dire qualcosa si gesticoli, il movimento anticipa sempre la parola. In un recente studio in cui i soggetti erano immobilizzati, si è constatato come questi ultimi, parlando, avessero difficoltà ad esprimersi e provassero molto spesso la sensazione di avere una "parola sulla punta della lingua". Un indagine in cui era stato impedito ai partecipanti di muoversi hanno dimostrato come l'eloquio diventi più povero, più "insipido", l'articolazione delle parole appaia più stentata e aumentino gli errori di pronuncia.

     Sempre nella stessa ricerca è stato messo in luce che numero e ostentazione nei gesti cambiano in relazione all'argomento di conversazione: sono minori quando si ci riferisce a un concetto astratto; per contro, sono più vivaci ed espressivi mentre si descrivono scene, azioni o  oggetti concreti. Inoltre, se si devono illustrare gli aspetti spaziali di qualcosa e si è impossibilitati o inibiti ad usare dei gesti, il discorso risulta più impreciso e meno particolareggiato.

     Il nuovo studio di  Krauss e Morsella, psicologi alla Columbia University a New York, sul rapporto tra linguaggio e gesti ha gettato nuova luce sull'argomento. I due ricercatori  avevano applicato all'estremità superiore destra dei soggetti seduti degli elettrodi che danno modo di registrare la presenza di tensione muscolare. Ai partecipanti venivano quindi lette delle definizioni di utensili, cose e idee e veniva chiesto loro di dire il nome di ciò a cui ci si riferiva.
     Dall'esame delle risposte e dal confronto con gli elettromiogrammi, i ricercatori hanno osservato che i termini concreti suscitavano una maggiore contrazione nei muscoli dell'arto dominante. Per altro, è stato anche constatato che, benché tensione e movimento dell'altro braccio non fossero misurati, anche questo veniva mosso assieme alla mano e che i movimenti erano tutt'altro che scomposti: anzi, erano realizzati in modo tale da fornire una raffigurazione plastica del termine cercato oppure dei movimenti che si fanno nell'afferrarli o nel farne uso; così ad esempio, nell'atto di recuperare il nome "pianura", i soggetti muovevano la mano a raggiera e nel ricordare il termine "spiedo", eseguivano una rotazione con il pugno semichiuso.

     Per spiegare queste relazioni, gli autori hanno abbracciato la tesi elaborata dall'equipe di neurologi dell'Università Cattolica di Roma, capitanata da Gainotti: sulla base di osservazioni su individui che avevano subito danni cerebrali, questi studiosi ritengono verosimile che quando apprendiamo il significato di un oggetto, lo archiviamo nella memoria assieme alle azioni e alle contrazioni muscolari che compiamo usandoli o che eseguiamo per comprenderne il funzionamento.

     Così, quando ci troviamo a richiamare a mente il suo nome, recuperiamo in realtà l'intero complesso di informazioni ad esso legate. In altre parole, si attivano non solo l'area linguistica del cervello, ma anche quella motoria e premotoria dove immagazziniamo le sequenze di azioni fra loro coordinate. La evocazione nel cervello del movimento  metterebbe automaticamente in moto i muscoli e ci spingerebbe ad accennare per lo meno parte della sequenza; questa, a sua volta, diverrebbe un "spunto" per ricordare il nome dell'attrezzo o dell'oggetto.

     Per quanto riguarda il recupero dei nomi di cose concrete si attiverebbe, invece, l'area di integrazione sensoriale (in questo caso, tra il senso del tatto e la vista). Semplificando, possiamo dire che per capire meglio la struttura o i rapporti spaziali di  qualcosa è come se passassimo una mano immaginaria su una sorta di suo "modellino"; in questo modo, oltre a vedere differenze in altezza, angoli e avvallamenti, sentiremmo anche le dimensioni tattili corrispondenti, cioè rilievi, spigoli o infossature:  invieremmo poi il tutto nella memoria assieme al nome della cosa … al momento della sua "rievocazione", adotteremmo quindi un processo analogo a quello indicato per il ricordo dei nomi di oggetti.

     

 

 
Corpi
di Linda Scotti
 

 

 

     Il corpo parla e lo fa in modo molto più eloquente delle parole che usiamo per descrivere i nostri pensieri. Anzi, quando vorremmo nasconderci dietro un fitto manto di discorsi, i nostri gesti, il tono della voce, i movimenti oculari mettono a nudo pensieri ed emozioni senza chiederne il permesso.

     Il linguaggio del corpo, conosciuto e studiato sotto l'etichetta di "comunicazione non verbale", ha un peso decisivo in tutti gli scambi comunicativi. Si stima che il corpo sia determinante in almeno il 70% (fino al 90%) del messaggio trasmesso. Le parole, dunque, rappresentano solo una piccolissima fetta della comunicazione che si alimenta, in gran parte, di cose non dette, di respirazione, di tatto, di toni di voce e gestualità.

     Le forme espressive del corpo vivono di vita propria e si attivano, quasi sempre, al fuori del controllo cosciente. Quando proviamo un'emozione all'incontro con una persona, il corpo manifesta quello che sente con la scelta di una postura, di una distanza, di un colore della pelle. I segnali partono dal nostro corpo e sono interpretati dal cervello di chi li riceve in modo del tutto inconscio. Questo processo circolare costruisce la cornice di senso che accoglie la conversazione fatta di parole. Capire i meccanismi che regolano la comunicazione non verbale significa, dunque, entrare nel cuore del comunicare, aprire la strada a quel mondo sconosciuto di messaggi che sono al di là della nostra sfera di conoscenze consapevoli.

     Un primo passo da fare, per usare bene il linguaggio del corpo, è capire cosa vogliono dire le persone che parlano con noi. La programmazione neuro-linguistica, su questo tema, ha sviluppato il concetto di mirroring (rispecchiamento). Il mirroring consiste nel rispecchiare, ovvero nel ripetere e far proprio il linguaggio non verbale (e verbale) dell'interlocutore. Quando sentiamo di essere in perfetta sintonia con l'altro, allora significa che si è attivato un rispecchiamento e, con esso, la sensazione e la convinzione di essere simili crescono in modo esponenziale. Talvolta, accade di sentire una naturale ed istintiva affinità con una persona, perchè ci si percepisce come "simili", "affini", "sulla stessa lunghezza d'onda": ecco che è all'opera il rispecchiamento! La sensazione di essere simili, spesso, significa solo che si comunica in modo efficace, ma non è detto ci sia, di fondo, un'affinità di idee o di sentimenti condivisi. Per contro, sarebbe impossibile un'autentica condivisione di pensieri e di emozioni senza passare per il rispecchiamento. Gli uomini, come tutti gli animali, prima di mettersi in gioco hanno bisogno di "annusarsi" e di riconoscere nell'altro l'appartenenza alla stessa tribù.

 

 
Gli occhi, specchio dell'anima
di Marco Pacori - Tuttoscienze n. 877, La Stampa, anno 133, n. 156 - 09.06.1999
 


     Gli occhi, l'avremmo detto o sentito un migliaio di volte, possono essere furbi, tristi, vacui, intelligenti e quant'altro ancora. Non si tratta unicamente di modi di dire; la psicologia ha fornito prove più che convincenti che le intuizioni popolari sono una volta tanto valide. La moderna scienza della comunicazione non verbale ha permesso di identificare con precisione l'espressione che lo sguardo assume quando siamo in collera o abbiamo paura; quando ci sentiamo tristi o felici. Si sa anche che un certo modo di guardare sfuggente, guizzante, incerto é spesso un indizio che l'interlocutore sta mentendo. La sessuologia ha poi constatato come la dilatazione della pupilla e la luminosità dell'occhio siano indiscussi segni di interesse e di attrazione.
     Ma l'avremmo previsto mai che basandoci sul solo colore degli occhi, saremmo stati in grado di fare ipotesi molto verosimili sul temperamento, sulle attitudini e addirittura sulle preferenze artistiche di chi ci sta di fronte? Una vasta serie di ricerche sembra dare atto che esiste una relazione tra colore dell'iride (la regione colorata dell'occhio) e una particolare disposizione del carattere e del comportamento.
     In un numero della rivista "Development Psychology" è stato riportato l'esito sorprendente di una ricerca condotta su bambini in età prescolare. Nella prima infanzia uno dei contrassegni più accurati della timidezza é il colore degli occhi: chi é inibito con buona probabilità ha gli occhi azzurri! Lo studio eseguito dagli psicologi Coplan, Coleman e Rubin dell'Università di Carleton di Ottawa in Canada é la conferma definitiva di una serie di indagini che l'hanno preceduta. La corrispondenza scoperta viene meno dopo i 4-5 anni, quando il bambino comincia a frequentare la scuola e ha di conseguenza maggiori contatti con coetanei ed adulti. A quel punto, commentano i ricercatori Rubin e Both, lo svantaggio iniziale di chi ha gli occhi chiari viene bilanciato dall'interazione con l'ambiente, rimettendo tutti sullo stesso piano.  Rosenberg e Kagan, altri due studiosi che hanno investigato al riguardo, ritengono che alla base del rapporto fra occhi celesti e inibizione ci sia un comune substrato biologico. Numerose altre ricerche analoghe sembrano dimostrare la fondatezza di questa ipotesi.
     Studi paralleli hanno infatti dato prova dell'esistenza negli individui con gli occhi scuri di un maggiore stato di reattività neurofisiologica e mentale; questa condizione li rende più scattanti, dinamici e vivaci rispetto alle persone con l'iride chiara, che appaiono tendenzialmente più pacate, moderate e riflessive, ma anche, per lo meno nei primi anni di vita, meno socievoli e più schive.  La causa di queste due diverse predisposizioni sembrerebbe dipendere da una sostanza naturalmente presente nel nostro cervello che, in funzione del suo ammontare, renderebbe il sistema nervoso più o meno eccitabile. Il nome di questo elemento é neuromelanina e si trova anche nell'iride e nella pelle (dove é chiamato melanina o eumelanina) determinando il colorito di questi tessuti. La neuromelanina appare in grado di facilitare gli scambi nervosi, accelerandone la trasmissione. Il pigmento degli occhi e il suo omologo cerebrale sembrano andare di pari passo: in altre parole, alte concentrazioni di melanina nell'iride (e quindi occhi molto scuri) corrisponderebbero ad un altrettanto elevato livello di neuromelanina (e ad una grande reattività nervosa). L'inverso accadrebbe se gli occhi sono chiari.
     Un'indagine di Miller e altri dell'Università di Louisville sembra dare peso a questa spiegazione. Questi psicologi hanno constato come gli individui con gli occhi scuri forniscano in media prestazioni migliori in attività fisiche che richiedano una bassa soglia di reazione come la boxe o il giocare in difesa nel football; mentre chi ha gli occhi chiari pare dia il meglio di se in sport più misurati e di precisione come il bowling o il golf. Lo stato di più alta eccitazione delle persone dagli occhi bruni é una condizione generalizzata che coinvolge non solo la mente, ma l'intero organismo. Uno staff di medici coordinato da Friedl ha riferito su "Autonomic Nervous System" il risultato di un esperimento in cui era stata iniettata dell'atropina (un sedativo) a un gruppo di uomini di età tra i 20 e i 30 anni. E' emerso che gli individui reagivano diversamente a seconda del colore degli occhi: chi aveva gli occhi castani esibiva un rallentamento del battito del cuore per un intervallo inferiore rispetto a chi possedeva l'iride chiara. Inoltre, la ripresa del normale ritmo cardiaco avveniva per questi ultimi con una progressione molto più lenta.  In uno studio affine, un equipe medica del "Kaiser Permanente Medical Care Program" di Oakland, ha esaminato 1.031 persone che soffrivano di ipertensione e altrettante con livelli medi di pressione. Si é così appurato che gli individui maggiormente a rischio di ipertensione (un correlato in genere dell'eccitabilità) avevano in misura statisticamente significativa l'iride di colore bruno.
     Gli occhi scuri suggeriscono che l'individuo é anche più impressionabile di chi li ha chiari. E' quanto ha dimostrato lo psicologo Markle. Lo studioso ha esposto a delle scene in TV un rilevante numero di individui di entrambi i sessi. Le immagini riguardavano situazioni neutre, violente oppure di accoppiamento fra animali. Le reazioni  erano testate con una sorta di macchina della verità. Facendo quindi un confronto fra colore degli occhi e intensità delle risposte emotive é apparso evidente che chi aveva gli occhi scuri aveva reagito in modo più forte; e, per contro, le "iridi celesti" erano rimaste più impassibili.
     Persino il giudizio estetico é connesso al colore degli occhi. Da indagini sulle preferenze per forme e colori si é rilevato come chi ha gli occhi castani o neri tende a prediligere figure simmetriche, oggetti complessi e strutture che presentino un grande numero di angoli. Al contrario, le persone con gli occhi chiari dichiarano un maggiore gradimento per forme più ordinarie, regolari e non sono particolarmente sensibili al colore. Quest'ultimo dato é stato provato sempre da una ricerca di Markle. Lo psicologo aveva sottoposto un gruppo di soggetti al test di Rorshach (il test in cui vengono mostrate delle macchie di china e viene chiesto cosa ci si vede). 7  tavole del test su dieci sono in bianco e nero e 3 a colori. Dall'esame dei risultati, il ricercatore ha constato come in generale chi aveva gli occhi chiari avesse visto nell'insieme un maggior numero di profili; tuttavia, in relazione alle tavole a colori (elaborate proprio per verificare l'effetto dell'emotività), il rapporto si invertiva: erano gli individui con gli occhi scuri a rintracciare il numero più grande di forme.
     Partendo da queste osservazioni, altri studiosi hanno voluto verificare se queste diversità avessero un rilievo anche in relazione al tipo di trattamento psicologico. Gli studi che hanno coinvolto bambini e giovani adulti, hanno rivelato che chi ha gli occhi scuri da risultati migliori con interventi di tipo comportamentale che prevedono un maggiore coinvolgimento dell'individuo e una partecipazione più attiva. Per converso, gli individui con gli occhi celesti trovano più giovamento con terapie basate sul dialogo o comunque più "cerebrali".

 

Prossemica e mimica facciale

di Paola Celentin

La distanza fra i corpi

 

 

Tutti gli animali vivono in una sorta di bolla virtuale che rappresenta la loro intimità e che ha il raggio della distanza di sicurezza, cioè quella che consente di difendersi da un attacco o di iniziare una fuga. Negli uomini, essa è di circa 60 cm., cioè la distanza del braccio teso.
La "bolla" è un dato di natura, mentre la sua dimensione e il suo valore di intimità sono dati di cultura e quindi variano: l'infrazione alle regole "prossemiche", cioè alla grammatica che regola la distanza interpersonale, può generare una escalation, cioè far interpretare come aggressivi e invasivi, quindi degni di una reazione adeguata, dei movimenti di avvicinamento che non hanno questo significato nella cultura di chi li ha compiuti.
Vediamo qui di seguito come vengono interpretate nelle varie culture le diverse maniere di avvicinarsi e di porsi in presenza di un altro o di altri.

 

Forme di contatto
 in Italia
 altrove
Contatto frontale
la sfera dell'intimità è data dalla distanza di un braccio teso
culture della costa europea del Mediterraneo: idem, chi si avvicina troppo invade il campo dell'altro, mettendolo a disagio e dandogli la sensazione di essere aggredito nel Mediterraneo arabo: la distanza si riduce, chi parla tocca spesso l'interlocutore sul petto o sul braccio culture europee non mediterranee e americane: i due interlocutori restano a distanza di un doppio braccio in Giappone, a Mosca: lo spazio personale è molto ridotto e quindi il contatto è obbligato e non si dice mai "permesso?" o "scusi!"
Contatto laterale
Soprattutto al Nord, è escluso l'eccesso di contatto fra uomini, visto come esibizione di omosessualità o ubriachezza
molte culture mediterranee: anche i maschi si prendono a braccetto tra di loro nei paesi arabi: i maschi si prendono anche per mano nel resto d'Europa: come in Italia zone rurali dell'Oriente sopravvive l'abitudine di prendersi per mano tra persone dello stesso sesso in Giappone: prendersi a braccetto, camminare molto vicini, a contatto di spalla, hanno una connotazione sessuale in Turchia e in altre zone di cerniera tra Europa ed Asia: mettere la mano sulla spalla di uno straniero significa "Caro ospite, lascia che ti guidi"
Bacio
Due baci sulle guance tra donne o tra donna e uomo sono sempre ammessi, tra uomini solo in casi eccezionali (ad es.: condoglianze)
in Giappone: un bacio in pubblico, anche tra padre e figlio, è escluso categoricamente in Turchia ed in altre culture medio-orientali: il bacio è d'obbligo anche tra giovani maschi
Spazio personale nel luogo di lavoro
Il luogo chiuso indica maggior prestigio ma anche maggior rispetto degli altri; il visitatore deve bussare ma spesso non attende la risposta "avanti"
i giapponesi: preferiscono, anche ad alti livelli gerarchici, gli spazi aperti in cui esibire il proprio ruolo i nordici: interpretano lo spazio aperto come una mancanza di rispetto, "Me ne frego di disturbarti" in Germania o negli Stati Uniti: il visitatore comunica rispetto per il territorio altrui tenendo la mano appoggiata allo stipite, ma i tedeschi di solito tengono le porte chiuse, mentre gli statunitensi aperte

 

 

L'espressione del volto

 

      Esprimere emozioni, sensazioni, giudizi, pensieri con la mimica facciale è una cosa "ovvia" nell'Europa mediterranea, in Russia e in alcune aree degli Stati Uniti; ma in Europa settentrionale ci si attende che queste espressioni siano abbastanza controllate, mentre in Oriente esse sono poco gradite, tanto che si educano i bambini fin da piccoli ad una certa imperscrutabilità, alla riservatezza riguardo i propri sentimenti.

In alcune culture, come quella turca, tale controllo è richiesto soprattutto alle donne, che devono essere impassibili.

     L'Italiano spesso esprime le proprie impressioni e sensazioni più con il viso che con le parole, attraverso una mimica facciale molto articolata. Frequentemente, infatti, facendo il resoconto del dialogo avuto con una persona ci troviamo a dire: "E poi ha fatto una faccia, come a dire…". Per noi è quindi del tutto usuale lasciar trasparire in questo modo il nostro pensiero, convinti che ciò sia indice di sincerità. Non funziona sempre così presso gli altri popoli, come ad esempio i Giapponesi, la cui rigida maschera facciale è una vera e propria necessità sociale. Difficile per loro quindi non solo interpretare i nostri segnali ma anche capirne la necessità, visto che esistono le parole per comunicare meglio e in maniera meno suscettibile di fraintendimenti la stessa cosa.
     Il contatto oculare si presta allo stesso tipo di fraintendimento: per quasi tutte le culture il fissare la persona che sta parlando è segno di attenzione e interesse per quello che sta dicendo; gli orientali, invece, esprimono la propria concentrazione abbassando gli occhi o addirittura chiudendoli, in una sorta di meditazione.
     Altre culture, come ad esempio quella tedesca, si avvalgono della mimica, ma con meno frequenza e enfasi, e danno quindi l'impressione di essere più "freddi", difficilmente infatti è possibile reperire le loro emozioni dallo sguardo o dalla piega della bocca.

     Infine, un cenno particolare va fatto allo "sbuffare" tipico dei francesi, che spesso gonfiano le guance e lasciano uscire rumorosamente l'aria per esprimere l'irritazione.